L’uomo a una dimensione

RESTI DI MATERIA

Francesca Baboni

“Uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale: il carattere razionale della sua irrazionalità.”

Herbert Marcuse

Quando un’opera pittorica tende ad affiancarsi ad un pensiero filosofico, cercando di trasformare in materia dei costrutti, risulta sempre particolarmente attraente. Non soltanto perchè l’estetica va a coincidere con un pensiero intellettivo, ma anche perchè attraverso la reinterpretazione in senso materico di un’idea immateriale si possono definire i confini della materia stessa.

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Unt hb7, 13×18, tecnica mista su tela, 2019

Lo spunto difatti per il progetto di Marco Vecchiato è quello di affidarsi alle parole di un celebre sociologo e filosofo come Herbert Mancuse per riattualizzarle nell’attualità della contingenza. Riuscire quindi a trasmettere l’immaterialità attraverso una preponderanza materica è l’intento sicuramente encomiabile del pittore, che con un segno preciso e talvolta stilizzato riproduce corpi apparentemente privi di vita, ma in realtà profondamente animati, che paiono fluttuare nel vuoto. Così come secondo Marcuse nel saggio L’uomo a una dimensione del 1964 l’uomo mediocre agisce secondo una modalità conforme alla massa, risultando scomodo riguardo ai dettami della contemporaneità, l’artista cerca di ragionare al contrario puntando sulla visceralità del colore rosso per richiamare la forte carica emotiva che coinvolge l’uomo che invece si eleva e si discosta da un sentire comune. Il colore della passione, del sangue e dell’ideologia, diviene riferimento evocativo di un sentimento e di una provocazione mai sopita, di una voce che non intende tacere.

Ma in evidenza è sempre la figura, un corpo disallineato e irrisolto, un tronco schiacciato sullo sfondo e ruvidamente bidimensionale, fatto di pochi elementi essenziali attraverso un uso sapiente

e virtuoso della matita e della modalità pittorica, sopra ad un fondo scabro che dal rosso si sposta al bianco assoluto dell’opera finale – che rappresenta la sintesi del messaggio – in cui l’essere viene annullato nel non-colore e annichilito con un tragico appiattimento. Il non-finito della rappresentazione, con parvenze di corpi dalla testa mozzata o parti anatomicamente umane ben riconoscibili, va dunque a simulare una mancanza di finitezza e disarmonia universale esplicitata dalla voluta mancanza di profondità spaziale dell’opera e dai continui ripensamenti che si stratificano sulla superficie e tra la carne viva, assieme a lacerti di tessuti con altri disegni che talvolta coprono la visione.

Marco Vecchiato si fa specchio in modo cerebrale e assoluto di una contemporaneità che intende sfuggire all’omologazione per arrivare ad una spiritualità di alto tenore, nella quale gli esseri viventi diventano quasi una traccia stilizzata o residuo di qualcosa che è stato. La sua figura umana, a volte isolata al centro o ai lati della raffigurazione, altre volte accompagnata da simili a cui si affianca quasi eludendosi nel confronto, rimane così inevitabilmente confinata alla bidimensionalità diventando quasi eterea, impregnata del rosso vivo che la assorbe, come un martire appeso al suo destino, un povero Cristo vittima del suo stesso essere. Il soggetto rappresentato sia che sia da solo o in compagnia di altri non racconta nulla di sè, non ha una storia né una narrazione, sembra quasi bastare a se stesso nella fissità della sua immagine, senza cercare alcun raffronto con l’osservatore esterno. Un individualismo che si affianca alla figura dell’artista rimasto oramai solo a confrontarsi con il peso del passato e l’ambiguità del presente.

Anche senza colpo ferire

Stefano Taddei

Are you motherfuckers ready For the new shit? Stand up and admit Tomorrow’s never coming

Marilyn Manson This is the new shit

I colpi arrivano da ogni luogo. Solo quelli modulati con impervia efficacia si possono districare nelbla bla e trasformare l’interiorità e l’esteriorità senza fare alcun male. Si discorre da tempo della prigione in cui si trova l’uomo contemporaneo. In realtà questi lacci sono continuamente scelti/subiti giornalmente dagli esseri umani. In fondo per l’uomo a cui non piace pensare questa modalità esistenziale va benissimo. Difficile farsi ascoltare da chi non è assuefatto a questo trend. Il magistero di Herbert Marcuse può essere ancora foriero di lasciti per l’attualità che non si sdraia su tale andazzo. Il problema, come si scriveva anche prima, è che certe teorie sconvolgenti non vengono assolutamente prese in considerazione dalla maggioranza. Marco Vecchiato non teme tale confronto e ne propone un riscontro, tramite il proprio medium artistico, verso l’attualità iperconnessa ma distratta continuamente da quello che conta davvero: la nostra libertà continuamente martoriata. La nostra rigenerazione è una possibilità improbabile che ha, comunque, bisogno di una potenza1. La ricerca dell’autore sta a testimoniare una di queste opportunità esemplificative. Si continua a cercare una modalità che sostiene l’esistere, rimandandola perennemente ad un oltre apparentemente inattaccabile2. Uno di questi può essere rappresentato dalla tecnica, vero motore di dominio dell’essere umano. Per superare ciò si dovrebbe andare oltre l’anima dell’Occidente3. In fondo il capitalismo rappresenta il lato più evidente della tecnica e si basa su una possibile alternativa di terrorismo o di totalitarismi, abbassa in modo falsamente protettivo il livello di aspettativa esistenziale dell’uomo4. Le arti devono confrontarsi con questa dittatura del vivere odierno che rasenta la caccia alle streghe. Sta nell’intimo il vincolo sociale, non essendo una legge universale. Se da questa promiscuità visionaria possa apparire una parvenza di identità si presuppone un osservatore non genuflesso al dovere contemporaneo. Chi costruisce osservazioni e le trasporta in estetica ha un senso ulteriore rispetto alla contingenza. Marco Vecchiato è uno di questi edificatori. Il nulla gli è attorno. Ma questa desertificazione, anche a lui, può non essere per sempre.

  1. 1  Franco Berardi, Futurabilità, Roma, Nero, 2018, p. 29.
  2. 2  Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe, ed. or. 1975/77, Milano, Adelphi, 1991, p. 23.
  3. 3  Emanuele Severino, Téchne Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002, p. 8.
  4. 4  Mark Fisher, Realismo capitalista, ed. or. 2009, Roma, Nero, 2018, p. 31.

Sottotitolo: L’ideologia della società industriale avanzata

marco vecchiato

“o piuttosto la trasformazione scientifica del mondo contiene una propria trascendenza metafisica?”

Herbert Marcuse

Herbert Marcuse nel 1965 viveva in un bel quartiere di casette basse con l’aria condizionata poco fuori San Diego, da lì poteva raggiungere a piedi l’università dove teneva corsi su Hegel e Heidegger. Nel 1964 aveva scritto One-Dimensional man, una critica lucida al sistema di crescita degli Stati Uniti. Il teorico tedesco riconosceva una nuova pericolosa forma di dittatura nel servilismo della società nei riguardi dei consumi e nella difesa dei confini come conservazione della propria centralità. Chi ha ascoltato Gaber ricorderà bene come queste cose siano diventate nostre.

È “L’ideologia della società industriale avanzata” il sottotitolo che Marcuse sceglie a L’uomo a una dimensione, che mi ha stimolato ad usare il colore rosso. Il rosso non mi è mai piaciuto, come le ideologie del resto. Neanche i lavori dai colori troppo accesi mi piacciono, sono come certi pensieri che nella loro perfezione logica finiscono per dire troppo e non sapere di niente.

L’uomo che affiora dentro le campiture rosse è favorevole ad ogni forma di progresso, ha accettato la tecnica, la modificazione chimica dei sapori e persino la cementificazione delle montagne. Senza troppa demagogia crede, come molti suoi simili, che non esista relazione proporzionale fra progresso e benessere o che la storia, non so se questo possa dirsi determinismo, potesse avere un corso differente da quello che ha avuto fino a qui.

Si tratta di un essere che ha accettato i piaceri e le contraddizioni di una società dai bisogni indotti. Senza passione o sofferenza si mostra così com’è più conveniente, dai contorni incerti com’è incerto il suo destino. Toccherà vivere senza rivoluzione, senza slanci, sospesi nell’entropia del mercato o nel migliore dei casi nel plusvalore generato dalla grande ideologia di una società avanzata!

Marcuse anche se inattuale aveva ragione, come Nietzsche del resto, ma come biasimarli quegli uomini senza dimensione che seguendo un’altra strada, forse meno poetica certamente più lunga, hanno vissuto cercando di riempire il vuoto che tutto incorpora niente contiene?